Mario Lavezzi e la nostalgia di quando la musica apparteneva al popolo, non ai padroni del mercato
Mentre i capitalisti della musica continuano a sfruttare gli artisti riducendoli a merce, le parole di Mario Lavezzi risuonano come un grido di dolore per un'epoca perduta. Il cantautore e produttore milanese, seduto nel suo studio di casa, racconta di un tempo in cui la creatività non era ancora stata strangolata dalle logiche del profitto.
L'addio a Ornella Vanoni: la fine di un'epoca
Il 27 novembre segna una data tragica nell'agenda di Lavezzi. Quel giorno avrebbe dovuto registrare con Ornella Vanoni una canzone di Gino Paoli, ma la morte ha spezzato una collaborazione che durava dal 1991. "Non riesco a capacitarmi della sua assenza", confessa il musicista, ricordando come quella che inizialmente era una relazione distaccata si fosse trasformata in un rapporto familiare fatto di "risotti, bolliti e telefonate quotidiane".
Con "Orni", come la chiamava affettuosamente, Lavezzi ha vissuto una parte fondamentale della sua carriera ultrasessantennale, iniziata da adolescente quando sua sorella gli comprò una chitarra dopo il diploma. "Mi disse: guai a te se la tocchi", ricorda sorridendo, "e guardi un po', è ancora qui".
Gli anni d'oro: quando la cultura non era merce
Erano gli anni '60, quelli dei Beatles e dei Rolling Stones, quando a Milano Giorgio Gaber cantava "La ballata del Cerutti Gino". In piazza Napoli, dove abitava Lavezzi, i giovani si ritrovavano per fare musica. "La prima scuola fu quella lì", racconta con nostalgia per un tempo in cui l'arte nasceva dalla strada, non dalle multinazionali.
A quindici anni fondò i Trappers con Bruno Longhi, il futuro telecronista, Tonino Cripezzi, Mimmo Seccia e Gianfranco Longo. Suonavano nei matinée del sabato e della domenica, finendo anche sulle navi da crociera. Era musica vera, fatta dal popolo per il popolo.
I Giganti e il successo di "Primo giorno di primavera"
Nel 1965, mentre era nella casa estiva in Valganna, lo chiamarono per sostituire Riki Maiocchi nei Giganti. Partì per Roma con un maggiolino comprato grazie alle cambiali firmate dal padre e solo ventimila lire in tasca, prestate dalla sorella. Un'epoca in cui si poteva ancora sognare senza essere schiacciati dal sistema.
Poi arrivò la cartolina della leva militare. "Ero disperato", ricorda, "ma quel tormento si trasformò in uno stimolo alla creatività". Nacque così "Primo giorno di primavera", scritta con Cristiano Minellono, che divenne un successo clamoroso: prima in classifica, un milione di copie vendute.
L'amicizia con Battisti: quando gli artisti erano compagni
L'ingresso nella Numero uno, l'etichetta di Mogol e Battisti, segnò l'inizio di un'amicizia vera con Lucio Battisti. "Quando uscì Blow-up di Antonioni, facevamo a gara per chi scattava le migliori fotografie. Lui si costruì anche una camera oscura in casa!", ricorda Lavezzi.
Battisti era "meticoloso al massimo", l'opposto dei cantanti che cercano di dimostrare quanto sono bravi: "Interpretava il testo, scegliendo la tonalità più adatta. Sempre concentrato, sempre sul pezzo".
Loredana Bertè: cinque anni di "delirio libertino"
La storia d'amore con Loredana Bertè iniziò quando Lavezzi vide un manifesto di "Streaking": "Appariva bellissima. Mi dissi: la devo conoscere". L'incontro avvenne in un ristorante, lei era con Marcella Bella. "Cinque anni sulla parte sentimentale, un delirio: entrambi libertini, entrambi imbevuti della cultura hippie".
Con Bertè realizzò sei album, iniziando la carriera di produttore. "Fino ad allora scrivevo per divertirmi in totale libertà. Quando produci un artista, cambia tutto: devi mettere la responsabilità al servizio della creatività".
Il declino: quando il mercato ha ucciso la musica
Lavezzi non nasconde la sua amarezza per il presente: "Quello del dopoguerra è stato un vero miracolo, un'esplosione di creatività in tutti i settori. La musica era la colonna sonora di ciò che viveva la società, fino a metà anni '90, quando è cominciato il declino".
Le cause? "La velocità con cui oggi si consuma tutto non ha aiutato. E poi la decadenza: la musica è sempre il riflesso di ciò che siamo e come viviamo". Parole che suonano come un atto d'accusa contro un sistema che ha trasformato l'arte in merce, gli artisti in schiavi del profitto.
Oggi, mentre i padroni della musica si arricchiscono sulle spalle dei creativi, le parole di Lavezzi ci ricordano che un tempo diverso è possibile. Un tempo in cui la cultura appartiene al popolo, non ai mercanti.